RECENSIONI
I Sintagmi dello spirito di Giorgio De Cesario
Augusto Benemeglio
“Con Giorgio De Cesario, gli Ufo, gli Et, gli alieni, i marziani sono già tra noi, nelle case,
nei giardini, nei laghi, nei prati, tra gli alberi e il sogno. .
Ed ecco che sullo sfondo di paesaggi, o situazioni cromatiche splendide e molto raffinate,
vediamo muoversi questi esseri incolori, glabri, col collo allungato, che fanno l’amore, ballano,
gioiscono, meditano, si bagnano, si disperano, esattamente come noi; in realtà gli alieni siamo noi,
ci dice De Cesario, con quella visione profetica anticipatrice degli eventi, che è propria degli artisti;
ma le sue non sono realtà, ma solo simboli, sintagmi dello spirito, figurazioni di pensiero,
striature di luce bianca e di libertà, che levano l’ancora erubescente della notte e vanno in giro,
un lungo viaggio in cerca forse di nuovi spazi per l’innocenza , nuovi mondi , nuovi cieli, nuove speranze…”
Vincenzo Sardiello, Presidente del Centro Artistico – Culturale “La Casaccia” ,
si è così espresso:” Il progetto di De Cesario propone un viaggio nei meandri della contemporaneità
e racconta al visitatore il progressivo abbandono degli uomini della propria natura e dei
propri sentimenti per abbracciare un sentiero di alienazione da se stessi”.
Potete scaricare il catalogo della mostra:
http://www.giorgiodecesario.it/wp-content/uploads/2011/12/Catalogogiorgiodecesario.pdf
MASCHERE, SENTIMENTI E COLORE DI GIORGIO DE CESARIO
Emmanuel Mons Delle Roche
La felicità non è evidente, sembra che Giorgio De Cesario voglia dire. I personaggi sono bianchi
fra armonie cromatiche molto belle. Inoltre, essi sono plasmati come se avessero delle maschere,
ma neppure queste riescono a nascondere la loro inquietudine, la loro difficoltà di vivere.
Sono bianchi (senza colori, o di tutti i colori?) in un universo ricco di colori,forse perché
l’artista lascia allo spettatore la libertà di scegliere il suo colore; inoltre l’apparenza dissocia
questi esseri dalla realtà : non sono capaci di comprenderla, e si fabbricano una maschera
(che non nasconde i loro sentimenti, lo ripeto).
Forse il loro spirito (dissociato dal corpo e dalla realtà esterna, cosa che spiega questi colli lunghi),
è di una natura diversa dalla realtà “tangibile”.
Nel lavoro di De Cesario credo ci sia tutto questo. Soltanto il suo autoritratto è differente:
egli è soltanto bianco e “oggettivo”; gli altri sono neri: sono quindi l’incognita perfetta.
Ma forse mi sbaglio sulle sue intenzioni.
La libertà che lascia la sua arte implica ugualmente quella da sbagliarsi.
Ne sono, in ogni caso, sedotto.
La Cronaca trasfigurata dall’arte
Di Carmelo Cipriani
De Cesario recupera fatti e protagonisti di scottante attualità calandoli in un’atmosfera da sogno.
Sottratta al consueto linguaggio massmediale e depauperata delle connotazioni più turpi, la cronaca è
riproposta sulla tela in termini plastico-pittorici. Designer, pittore, scultore, il poliedrico artista
è artefice di un linguaggio singolare, sospeso tra aspirazioni astratte e figurazione naif.
Tela e argilla i medium privilegiati, utilizzati non in contrapposizione o secondo scelte aprioristiche,
ma integrati sino a potenziare reciprocamente superficie e volume.
Da sfondi bidimensionali popolati da figure arabescate, emergono ieratici volti in argilla, archetipo
dell’uomo contemporaneo, reso inespressivo e insensibile dall’incipiente omologazione.
La traslazione in un mondo fantastico conferisce allo spettatore un punto di vista distaccato,
obbligandolo a riflettere sulle aberrazioni del mondo odierno, sulle tragedie quotidianamente
procurate da inettitudine, disagio sociale e ignoranza.
Giorgio De Cesario. “L’essere che (non) c’è.”
beppe costa
Leggendo con gli occhi del cuore – non certo del critico, quale io non sono e che, spesso, cuore non ha -
sono entrato in punta di piedi incontro alle opere di Giorgio De Cesario e ne ho ritrovata tutta quella forza
antica di chi l’arte l’ama (come me) e la rispetta (come pochi).
Ho guardato più volte dentro ogni sua opera notando la cura (di certo interiore) che l’uomo poneva nel non
essere altro che sé, l’interno del sé.
Tralasciando per il momento la descrizione formale che ne prevede (o indica) il come e il perché, De Cesario
è consapevole che, per potere inventare ed essere diverso dagli artisti che ama, basta amarli (senza farli maestri o santi) e vedere con gli occhi propri gli stimoli, la forza che ogni autore amato ha trasferito nella sua vita, negli studi, nel lavoro e, soprattutto, nell’immaginazione.
Se ama i lunghi colli di Modigliani li fa propri, o le donne ferite di Klimt noi, che con gli occhi guardiamo,
lo intuiamo e ne avvertiamo il sapore, l’odore, le linee, i colori. Così come per Mirò, Magritte, Mondrian
e tanti altri ancora.
E, dunque, poiché in questo caso l’artista insegna ai giovani studenti, sa bene che l’arte va amata, fatta
propria ma, assolutamente, non copiata.
Se aggiungiamo poi quel vivere quotidiano che la maggior parte di chi ha testa e cuore avverte, fatta di
stupidari televisivi e di linguaggi d’arte, di musica e poesia quasi seppelliti, ecco che, il detto prima
con quanto si vuole aggiungere adesso: che ognuno proceda poi con la propria cultura ed emozioni.
L’evidenza, per il mio cuore che guarda, è la visione dell’essere umano che Giorgio De Cesario ci indica: figure pallide,
apparentemente eguali, prive di espressioni (mentre i colori fanno da sfondo/mondo) a rappresentare la solitudine dentro e fuori l’essere umano. Come dire: l’Essere e il nulla, ma di un essere che è sempre ‘fuori’ da un’altra parte, da altro di sé.
Così come scrive ed indica perfettamente Maria Cristina Maritati, che al fianco gli vive e gli è, (sembra la medesima cosa,
ma, sapete bene che non lo è). Questa necessità “dell’uomo maschera”, infelice dell’essere identificato con l’’Uomo qualunque’,
quando qualunque non è, ma che tanto vorrebbe ‘qualcuno’ e spende tutta la propria vita per andare altrove, per avere altro,
per essere, non accontentandosi pressoché mai. E questo in parte sarebbe corretto per ogni essere umano nell’intento però di
migliorarsi : “Fatti non foste per viver come bruti”, cosa che invece sembra il traguardo per molti aiutati dallo sciocchezzaio
televisivo e dal disastro che specie il nostro paese vive anche e soprattutto a scuola, dove arte e musica la si studia
(si fa per dire) solo alla media, unico paese al mondo, quello che indicano come civilizzato.
Quando si tratta di donna il ‘guasto’ che produce alla sua psiche è ancora maggiore.
Mi ricorda anche se non con precisione i versi di Jesus Lopez Pacheco (poeta spagnolo non più edito nel
nostro paese) che descrive più o meno così il desiderio di essere altrove:
“…due treni fermi ad opposti binari, dai finestrini ciascuno guarda i volti di chi va in direzione contraria,
non volendo andare nella propria…”
Tema ripreso per tutta la vita da Fernando Pessoa che in poesia fa una sorte di sintesi (dal mio punto di vista)
rendendo più chiare tutta la filosofia e la psicologia d’ogni essere umano che si guarda, si vede, si cerca.
Senza trovarsi.
E dunque appaiono anoressici ‘mentali’, corpi smussati, squadrati in posizioni e collocazioni assurde (surrealisti),
o spezzati in cubi (Picasso, Carrà) ma, tutto con una scrittura assolutamente originale e coraggiosa dove,
i volti in argilla escono come mostri (lo siamo) e non come extraterrestri come l’occhio che va di fretta
può indicare.
L’isola che non c’è, l’opera che in qualche modo indica il distacco dell’uomo minuscolo dinnanzi all’universo,
sebbene sembri di tutt’altro genere (e nello stile lo è), non fa che confermare la solitudine (in questo caso c’è
un ‘numero primo’ che è seduto sulla luna) e il bisogno, necessità-dovere di volgere lo sguardo altrove e da
lì ritrovarsi.
Molto più semplice nei secoli passati quando il r