RECENSIONI
LA PRESENZA DELLA RAGIONE
L’informale di Stefano Fanara si propone come una pittura organica ed evocativa dove l’accumulo incalzante della materia si dissolve, sfuma, frammenta, segna improbabilità terragne e naturali, dove il colore diventa protagonista assoluto assumendo un ruolo autonomo e compresso sulle grandi tele quasi una presenza fisica liberatoria riassuntiva del fare pittura. Una densità materica, comunque, sempre non casuale, senza inquietudini automatiche e puramente gestuali ma calibrata e costruita in una sequenza maniacale di piccole tessere contigue e cariche di luce mediterranea.
L’opera finisce così per comunicare una sua forza intrinseca, una emozione forte, intensa, determinata che va oltre ogni compromesso o mediazione intellettuale: insieme eterogeneo di improvvisi lirici - sino a spaziature di furiosa drammaticità - in una ricerca puramente pittorica e obbligata, costruita dal basso verso l’alto . Ricerca che perde o dimentica per strada possibili stimoli naturali, o naturalistici, per l’essenziale di una pittura restituita alle sue origini di immediatezza, di creatività, di pura ispirazione senza urgenze di racconto. In Fanara non ci sono valori o significati mutilanti che costringono a dare senso compiuto e finito al suo lavoro, le composizioni non hanno neppure titolo. Nell’artista è stanziale, piuttosto, una trama assolutamente autonoma di varianti infinite e di scosse emozionali, un tessuto tattile e motorio in cui tagli di nero improvviso e notturno ristabiliscono drammaticità, carica, ritmi sinergici.
Sono diverse le tensioni di racconto che vivono in questo ultimo ciclo di opere. Mentre alcuni dipinti appaiono immediatamente riferibili a memorie di paesaggio, in altri si assiste al netto rifiuto del quadro come “rappresentazione” e quindi alla negazione della forza evocativa dei mezzi astratti di espressione. Una dinamica di crescita continua e snervante porta a sintesi un atto del dipingere che non testimonia sé stesso ma vive per accumulazione e muove energia.
Anche se l’ordito ha, in qualche caso, l’impasto tumultuoso di una sorta di action painting ben lontano è da Fanara quel nuovo senso del tempo, quell’atto autografico, quella sperimentazione urgente come azione e come evento concreto ed immediato che Sam Hunter definiva episodi del dramma di autodefinizione dell’artista d’azione. Per contro risulta credibile che in qualche fase del suo fare pittura l’artista ritrovi momenti affini e contigui al vitalismo ed alla scrittura della generazione eroica americana dell’ultimo dopoguerra. Non è casuale, infatti, che Stefano abbia scritto - in appunti a margine di un suo profilo d’artista - di come lasciar muovere l’energia significa far muovere la mano, senza controllo mentale, cercare di diventare un canale vuoto, dare parola a tutto ciò che è sconosciuto, avere fiducia nell’ignoto, percepire che qualcosa accadrà anche senza sapere come.
Appare nell’ultimo Fanara un forte elemento di ritualità del gesto. Un gesto frenato, caotico solo in apparenza, instancabile ripetizione di andamenti ritmici in una difficile commistione di equilibri tra ordine ed esplosione. E’ una conquista progressiva del vuoto quella che l’artista mette in atto, una espansione in spazi non misurabili, che vanno oltre il confine del quadro, ed in cui i colori alchidici, liberati da contenuto e forma, si fanno stanza espressiva, filigrana emozionale, reperto di una memoria del naturale. Una pittura magnetica spalmata in una poetica dello spazio tra cupe intensità ed improvvisi di aspra sensualità e dove, in ogni opera, si trova condensato tutto uno sgomitolarsi emotivo che viene da lontano. Sono le verità relative di un procedere introspettivo e defatigante per spazi stretti in cui il dettaglio diventa proiezione di insieme.
Cosi’, di quadro in quadro, Fanara ripete il suo muoversi, la sua ricerca, il sottrarre dal nero dei fondi carnalità di colori ora lavici e infuocati, ora freddi, vividi e abbrividiti sino a certe epifanie di verdi dai timbri morbidi ed invitanti o di satinata, paludosa opacità. Il suo fare pittura non é ieratico, ossessivo, tumultuoso come potrebbe apparire. Si compie e si chiude nell’opera di Fanara un equilibrio delicato tra la densissima emotività ed inquietudine che l’artista si porta dentro e la codificata razionalità della costruzione pittorica. Se da una parte infatti c’è il lasciarsi trasportare dalla situazione emozionale del momento dall’altro entra in circolo una ordinata compressione razionale che calibra la ricca e tormentata materia pittorica quasi fosse un lento accrescimento di verità interiore: la superficie dipinta è l’espressione di ciò che sta sotto, nasconde strati più profondi, forse involontari, il suo visibile sconta l’inesplicabile delle forze elementari di forma e colore.
Sono esiti di informale purissimo che si combinano nelle opere segnate dai neri con tracce profonde, con chiusure e contrazioni di espressionismo astratto di raffinata caratura estetica. Anche questa, solo apparente, contradditorietà segna la carica emotiva di oggi che non dimentica le radici e sintetizza l’antefatto mai occasionale, e pertanto presente, del suo lungo percorso artistico. In effetti non si tratta di “raccontare” emozioni ma di ricrearne le cause. La vibrazione quasi molecolare delle stesure e delle tessiture materiche è mutazione ed elaborazione continua, crea un work in progress permanente, accentua un linguaggio in cui l’ispirazione non è dovuta ad alcuna suggestione mnemonica o, comunque, alienante. Ogni opera vive così un suo clima di metafisica corporeità, sulle grandi tele il lavoro è lento e voluto, il disegno è meditato e complesso e deve essere sempre portato ad un stadio di completa organizzazione.
Nessun lavoro nasce per copia conforme perché in Fanara ogni quadro è un viaggio in stazioni di turbamenti improvvisi, di percussioni accelerate, sulle sensazioni di un dentro che cerca luci di superficie e segnali di nuovo orizzonte. Non è un caso che siano scomparsi i cieli e i larghi squarci di azzurro intenso e ghiacciato che hanno caratterizzato il tempo che ha preceduto questo tuffo, questo collasso, questo affondo nel cuore della materia: altro viatico possibile verso l’affermazione di come l’arte puramente astratta non sia possibile e, comunque, non nasca mai casualmente. Casualità rifiutata anche nella stagione più prettamente segnica che ha anticipato questo ultimo ciclo di opere: un accatastarsi di tratti brevi, spezzati, quasi calligrafici, convulsi nello spazio dove si aprivano lampi abbacinati di luminosità intense, vibrazioni e scoperta di nuova mitologia naturale, materia dolente, sfilacciata e conclusa in memorie arcane e misteri insondabili. Come quei neri segni di croce che, oggi, sembrano vietare accesso ulteriore allo spazio, quasi una negazione che afferma, o che concede, alla pittura attorno un ulteriore diritto di esistere.
VALERIO GRIMALDI